Mario Tamponi Zurück
L’indomabile Nietzsche e l’addestratore di formiche Da adulto Domo continuava a frequentare qualunque circo si accampasse nelle vicinanze. Gli piacevano i salti mortali al trapezio, ma soprattutto i numeri dei leoni e degli orsi, e ne ammirava i domatori che la passione rivestiva di mitico. Non potendo competere con i loro muscoli color ottone scolpiti su fisici superbi si rassegnò ad emularli ammaestrando i propri animali domestici. Con pazienza e lungimiranza provò a coinvolgere il gatto, Nietzsche, che, pur capendone le implorazioni accorate, non dava segni di voler rinunciare all’abituale poltroneria e all’occasione sembrava persino vantarsene. „Puoi diventare il felino più straordinario del mondo e far felice anche il tuo padroncino, devi solo parlare“, gli diceva fissandolo nel volto sornione. „Il miagolio monotono e ripetitivo non si addice alla tua intelligenza. Non mi aspetto lunghi discorsi, nessuno vuole sentire le tue stranezze… basta che saluti il pubblico e risponda a due o tre domande, potremmo anche concordarle! Se proprio ci tieni, potrai mentire, dire quello che tutti si aspettano, che hai fame e sei un cacciatore di topi. Non credere che voglia sfruttarti con la televisione; potremmo limitarci ad organizzare spettacoli all’aperto e di tutti i guadagni ti prometto l’otto per cento in filetti d’aragosta e linguette di pappagallo… e per giocare ti procurerò i canarini più esotici.“ Quando però Domo lo accarezzava per indurlo all’assenso, Nietzsche faceva le fusa e da superuomo annoiato s’abbandonava a Morfeo. Quando per scuoterlo l’aspirante domatore passava alle maniere forti e digrignava i denti alla maniera dei mastini, lui s’infilava in cunicoli inespugnabili con un miao miao ora stizzoso ora lamentevole come per fargli intendere che l’uno non vale l’altro. Fu così che Domo ripiegò sugli insetti. Nelle crepe della terrazza di casa s’era accampato un formicaio da cui partivano file serrate e interminabili di termiti verso la cucina ogni volta che lui dimenticava – e poi di proposito lasciava – uno scodellino con resti di miele; ne era ghiotto, da bambino – raccontava – la mamma se ne spalmava le mammelle per rendergli più gradevole l’allattamento. Fu proprio spostando lo scodellino, prima a casaccio e poi ad arte, che entrò in sintonia con le formiche. Presto capì che associando le parole alla posizione del miele la comunicazione si sviluppava anche a prescindere dalla promessa di una gratificazione immediata. Loro afferravano il senso del suo discorso, lui invece con i timpani ormai incartapecoriti non riusciva a captare se non sommariamente le loro risposte, anche quando le testoline e le zampette in fibrillazione lasciavano supporre che fossero stridule e articolate. Domo si lasciò quindi assediare e ispezionare da centotrentatre formiche che fra le tante volenterose aveva selezionato secondo prestanza fisica, prontezza di riflessi e affidabilità. Se le portava addosso ovunque andasse perchè il processo d’addestramento e formazione fosse permanente; su e sotto pantaloni e camicia circolavano liberamente dai piedi alla testa. Siccome chi li vedeva, ignorando il senso di quella simbiosi, istintivamente tendeva a schiacciarle per liberare il presunto poveraccio dai presunti parassiti, Domo le allertava all’approssimarsi del pericolo con urletti a ultrasuono. L’avvertimento che come un ventriloquo emetteva senza muover labbra erano parole in codice secondo la tipologia dell’aggressore: ragno, passerotto, formichiere… umanoide. E le formiche, al sentirle, si precipitavano nelle rispettive tane del corpo di Domo secondo i gruppi d’appartenenza e le disposizioni ricevute: chi tra i capelli, chi nelle narici, chi nei padiglioni auricolari, le più giovani e goffe semplicemente nelle pieghe dei vestiti. La ricompensa di fedeltà la ricevevano di notte quando dalla branda dove lui riposava potevano raggiungere il miele che traboccava da una tazza accanto all’abat-jour. Coi pancini rigonfi ritornavano poi barcollanti a soggiornare sulla pelle calda dell’amato addestratore di cui nel silenzio dell’oscurità amavano misurare le pulsazioni, i flussi umorali, il turbinio delle vicende oniriche. Centotrentatre, il numero dei componenti della squadra, Domo non l’aveva fissato a caso; su quella disponibilità aveva ripartito i compiti e predisposto la strategia complessiva. Man mano che qualcuna s’ammalava, s’infortunava, perdeva vigore o anche solo motivazione, era l’intera compagine ad escluderla buttandola giù e Domo provvedeva a rimpiazzare le perdite gettando come un ponte levatoio un dito sul formicaio. Tra le nuove aspiranti che salivano ansiose una commissione di formiche-esperte operava la selezione, che Domo convalidava, e alle prescelte assegnava le rispettive mansioni. Dal collaudo organizzativo le formiche passavano allo sport (come gare di velocità e di sollevamento pesi), alla cultura e a numeri da spettacolo in vista di esibizioni pubbliche. Per la danza classica e moderna si schieravano circolarmente in gruppi da trenta con cinque al centro con funzione di battitrici ritmiche. Si agitavano dondolando i testoni e sollevando le zampette in onde sincronizzate alla maniera del can can parigino. Si erano addestrate su tarantelle e rock, poi su brani della migliore tradizione rinascimentale e del barocco veneziano. La prima all’Ariston fu annunciata con i titoli più sensazionali: „La rivoluzione degli isotteri!“, „La riscossa dei piccoli!“, „Barocco, rock ed eros!“ Le locandine riproducevano una formica gigante con occhietti allusivi e un due pezzi osè per l’eccitazione dei beniamini che con l’incalzare della pubblicità e l’approssimarsi dell’evento diventavano sempre più numerosi e impazienti. La sera del debutto Domo entrò in sala con giacca scura, farfallino e un cerimonioso incedere da mago. Senza preamboli chiamò a raccolta le sue formiche. Sbucando tutte dai molteplici anfratti del suo corpo, come artisti provetti andarono in fila indiana a piazzarsi su una tribunetta verniciata di bianco per farvi risaltare i corpicini scuri. Gli ordini che Domo impartiva all‘ultrasuono li accompagnava in simultanea con fonetica convenzionale per farsi intendere anche dal pubblico, teso e attento ad ogni minimo particolare. Ma gli spettatori più distanti, non tutti muniti di binocolo da teatro, a malapena riuscivano a scorgere sulla tribunetta sotto riflettore puntini indistinti, qualcosa come un nugolo di polvere vibrante all‘alito del vento. Come lampo a ciel sereno esplose il fischio di un miope della penultima fila e per contagio i vicini senza binocolo gli fecero eco con un brontolio sempre più bilioso. Partendo dal punto più critico si diffuse poi nella sala un lieve puzzo da insetticida fino a stagnare in alto come cappa. Per la gente sapeva di disinfettante o di deodorante, per le formiche invece, da sempre sensibilissime all’agguato dei veleni, quell’odore era insopportabile, minaccioso, e senza esitazione si precipitarono nei loro nascondigli. Nessuno della platea avrebbe potuto intuire quello che Domo osservava da vicino, le convulsioni da vomito di tante delle sue minuscole amiche, il dramma di dover interrompere sul più bello la danza dei cigni di Ciaikovski, loro cavallo di battaglia preparato con cura e riprovato tantissime volte. Aiutandole nella loro fuga d’emergenza come da un’apocalisse Domo ruotò lo sguardo intorno alla ricerca del codardo del primo fischio e del sabotatore dello spray, facce cupe scavate dall’invidia. Non aveva nulla da dirgli, voleva solo scrutarli negli occhi per iniettarvi l’amaro del proprio sgomento. Prima ancora che il pubblico si fosse interamente diradato Domo si affrettò a casa col suo carico di esserini angosciati. Sulla terrazza li esortò a rientrare nel loro formicaio e con cura ve li depose all’ingresso uno dopo l’altro; sperava che nella loro famiglia potessero ritrovare il conforto che noi cerchiamo negli amici, nei padri spirituali, nei poeti. Rintanandosi rinunciavano a capire qualcosa di più del mondo umano, della cattiveria gratuita e degli insetticidi, paghi delle provviste nascoste e del loro silenzio. Per lenire la propria angoscia Domo incorniciò ed espose sulla parete di fronte al letto una foto gigante dello spettacolo interrotto che voleva ricordare splendido nonostante l’irrompere del fischio e del veleno maledetto fuori programma. Sbirciandola si sentiva il miglior domatore del mondo, più bravo di qualsiasi Tarzan tra orsi e leoni. E si riconciliò con Nietzsche fino allora imbronciato di gelosia. E il felino, riaccarezzato con la tenerezza di una volta, socchiuse gli occhi assaporandone la beatitudine e fingendo di dormire. In seguito Domo si decise a scendere nell’infinitesimale. Sapeva che sul cuscino e sulle lenzuola del suo letto vivevano milioni di acari; ne conosceva i corpi segmentati e corazzati, le ventose e chele altere per averne più volte osservata al microscopio la perfezione funzionale. Gli sembrava assurdo che con tutta la loro eloquenza bellicosa non potessero comunicare con l’uomo solo perchè di un altro universo spaziale; bisognava aiutarli a superare la soglia dell’invisibile. Pensava di dover creare per loro l’ambiente e le condizioni genetiche per sbloccare il meccanismo inibitorio della crescita: con un‘alimentazione adeguata o forse fagocitandosi a vicenda, i più voraci si sarebbero ingigantiti fino ad assumere le dimensioni della cimice, poi dello scarafaggio, poi del porcospino e via via fino a chissà quale nuovo tipo di ippopotamo o dinosauro. Domo esultava di poterne essere l’artefice e quindi l’amico di quegli esseri in ogni stadio del loro sviluppo. D’un colpo sarebbe diventato l’addestratore naturale di una miriade di viventi in evoluzione dello stesso ceppo e avrebbe potuto mostrare all’umanità l’affinità di mondi apparentemente incompatibili. Domo credeva di aver capito che nel nostro mondo ordinario se ne annidano tanti altri sconosciuti o ignorati, reali almeno quanto quelli che molti vorrebbero andare a cercare agli estremi confini del cosmo. Oggi Domo continua ad alimentare e fortificare i suoi acari ancora microscopici con gocce di miele al balsamico di cui a giorni alterni cosparge le lenzuola ingiallite; e vigila per sottrarre soprattutto le federe al genocidio della lavanderia. Il sostegno più assiduo gli viene dalla vicinanza di Nietzsche. L’ostinazione del felino a non offrirsi a spettacoli per sbalordire con la parola inguaribili babbei Domo la percepisce ora come testimonianza silenziosa di un‘altra saggezza. Mario Tamponi