Mario Tamponi Zurück
La conversione di Silvio Politica tra surreale e verosimile Da due giorni medita in un monastero francescano sugli Appennini toscani. La cella, situata nell’ala più riservata, è austera: un lettino in ferro battuto, un tavolino con sedia di quercia intarsiata, un inginocchiatoio penitenziale davanti ad un crocifisso in legno tarlato, uno spioncino sulla cappella interna. Sulla parete di fronte l’immagine giottesca del poverello d’Assisi. L’unico elemento sintetico è la porta plastificata del bagno. Dalla finestra a bifora lo sguardo spazia sulla vallata ariosa e incolta. A sinistra uno squarcio della chiesa gotica con le guglie rivolte verso il cielo. Neppure i monaci sanno della presenza dell’ospite illustre, tranne fra Bernardino, il padre superiore dal barbone ascetico che lo assiste in tutto e furtivamente gli porta spuntini frugali. Guai se sospettasse anche solo qualche fraticello della portineria o del refettorio! Nel giro di poche ore il segreto sussurrato si diffonderebbe negli angoli più reconditi del convento, strariperebbe verso i paesi vicini e l’intera nazione. L’ultima apparizione pubblica di Silvio è stata al vertice italo-tedesco, dove si è speso per esaltare l’amicizia tra i due paesi e il fascino femminile della cancelliera. Il lunedì successivo si è fatto vedere di corsa a Palazzo Chigi e nella residenza romana di Palazzo Grazioli. Si è congedato dalle segretarie e dai collaboratori personali lamentando fitte di emicrania da curare con qualche giorno di riposo in località ignota. La proposta del monastero appenninico gliel’ha fatta proprio fra Bernardino, amico di famiglia, che Silvio apprezza per una religiosità non bigotta nè invadente. L’impervia geografia è poi ideale per agevolare un defilarsi pulito, senza tracce. Preziosa è stata la collaborazione del suo pilota d’elicottero e dell’autista fidato che dall’aeroporto di Pisa lo ha portato a destinazione con una modesta utilitaria stile papa Francesco. Nell’eremo Silvio non si propone i classici esercizi spirituali o colloqui religiosi con fra Bernardino. Vuole sviluppare da solo il filo delle riflessioni agitate dell’ultimo periodo, lontano da tutto e da tutti. La fragilità fisica dopo l’intervento al cuore e una malinconia impalpabile gli hanno trasmesso d’un colpo l’inedita sensazione d’invecchiare. Sembra che il tempo gli si sia posto di traverso per reclamargli un bilancio più sincero dell’intero passato: una vita intraprendente, avventurosa o spregiudicata secondo i punti di vista di un’immensa letteratura giornalistica e delle biografie scritte da amici e rivali, tra panegirici e insulti. Ora sulle tentazioni di vanità prevale la voglia di silenzio, lontano dal tormentone dei grovigli processuali degli ultimi anni e dei colpi bassi di fedeli diventati sfidanti. Pare non turbarlo più l’affronto d’essere privato persino del banalissimo titolo di cavaliere, la perdita di quota nella classifica degli uomini più potenti del mondo e dello stesso primato italiano. Quando decenni or sono aveva scavalcato gli Agnelli ed altri magnati nostrani credeva di dover puntare verso la vetta europea e ancora più in alto… soprattutto lo infastidiva il vantaggio da oceano atlantico del giovincello Bill Gates con la sua aria canzonatoria da eterno spiantato. Dopo la recente conversione per folgorazione alla San Paolo sulla via di Damasco gli pare persino ridicolo – se non pericoloso – ogni confronto patrimoniale ai fini di prestigio, come se per lui fosse la stessa cosa avere 50 invece di 100, quando per vivere bene gliene basterebbero 10. Da cattolico benestante si è dovuto confrontare con la severità del Vangelo là dove sentenzia che “è più facile che un cammello (non un topolino o un gatto!) passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”. Nell’esegesi di questi brani indigesti nel passato ha sempre trovato conforto in preti indulgenti e in suore di famiglia; secondo loro Gesù non demonizzerebbe la ricchezza materiale se questa si affianca alla povertà di spirito, al distacco psicologico. Ormai gli sembra difficile conciliare col Discorso della Montagna l’assoluto superfluo, la concentrazione di ricchezza e la presunzione di esserne un insostituibile gestore, la collezione di ville e miliardi al cospetto di un mondo di fame ed indigenza. Ha cominciato a capirlo nel decorso della malattia che lo dava per spacciato, nel convivere con la precarietà, la stessa dei comuni mortali. Nel monastero quella precarietà la gridano ora le pietre e la montagna, l’intimità della cella ritmata dalle campane delle ore e della preghiera corale. Che male c’è se, dopo il crollo di Craxi, Silvio è entrato in politica? Era pressochè inevitabile per salvare un impero indebitato, che con la determinazione vendicativa di tanti si sarebbe potuto squagliare come burro al solleone. Quale D’Alema, Di Pietro, Fini o Casini nei suoi panni e col suo ingegno non avrebbe fatto altrettanto! Certo, quella di Silvio è stata un’operazione aziendale. In pochi mesi ha creato il primo partito italiano umiliando quello delle masse con un secolo di storia e di ideologia, e fagocitando quell’altro cresciuto nel dopoguerra sull’equivoco popolare di avere Gesù Cristo tra i suoi membri fondatori. È anche ovvio che per garantire il successo doveva far credere di essere mosso dallo zelo per il bene comune, dal desiderio di liberare la res pubblica dalla cialtroneria dei politicanti per portarvi la concretezza vincente del manager. Ma una volta consolidato l’impero finanziario, perchè prolungare l’operazione doppiando stabilmente potere imprenditoriale con quello politico? Questa formula, inedita nella democrazia greco-occidentale, sembra consentire la crescita aziendale con la politica, la crescita di consenso popolare col potere aziendale e i suoi media. Ma inevitabilmente nasce il dubbio sul binomio improprio. Che fare? Lasciarlo irrisolto col pericolo che siano gli avversari a liquidarlo punitivamente, oppure prendere l’iniziativa e gestirne la scissione? Il dilemma per Silvio è anche esistenziale... col cammello che sosta impacciato davanti alla cruna dell’ago. Le ombre della sera s’impadroniscono della cella, poi della campagna toscana da cui giungono il frinire delle cicale e i versi di altri spiriti ameni. Silvio si abbandona sul lettino al brusio dei vespri cantati dalla cappella e si addormenta girovagando tra i ricordi dell’infanzia all’oratorio. Lo risvegliano le campane e i riflessi giocosi del sole nascente sul bianco pastello delle pareti. Si annuncia il terzo giorno. Nella clausura senza tempo il presidente si ritrova presidente e riprende la riflessione interrotta. Nella gente sente barcollare la credibilità del politico ricco, contrariamente ai sondaggi che gli propinano i consulenti dell’ottimismo. Gli sembra arduo continuare a far credere che egli tuteli allo stesso modo gli interessi degli imprenditori, dei lavoratori, dei disoccupati, dei barboni. Una volta non faceva una piega il teorema secondo cui, promuovendo l’impresa, crescono l’occupazione e la ricchezza per tutti. Ora sembra vero solo in teoria. In pratica non fissa i criteri di ripartizione equa dei sacrifici e dei profitti. C’è chi dubita persino che egli sia interessato a migliorare la sorte dei poveri pensionati secondo il principio commerciale che l’aumento delle pensioni incentiverebbe i consumi, quindi la produzione, quindi il bene comune. Una volta si indulgeva su un monopolio dei media con un padrone ritenuto pluralista convinto; a parità dei servizi se ne evidenziavano l’efficienza e la riduzione dei costi. Ma come continuare a far credere alla fiaba del monopolio democratico? Non convincerebbe più neppure una certa polemica contro la giustizia. Certo, la giustizia può essere gestita anche da magistrati faziosi e corrotti. Ma almeno Silvio non dispone forse di tutti i difensori che vuole, di fronte ai tanti poveracci che devono accontentarsi di demotivati avvocati d’ufficio per tutelare la propria onorabilità e talvolta la propria pelle? Ancora. Silvio è un paladino della libertà e governa col consenso popolare. Ma è sempre libero il popolo che vota? Anche in un sistema di concentrazione di potere e di mezzi d’informazione e persuasione? In casi estremi a votare non potrebbe essere un popolo addomesticato o virtuale, orientato su modelli artefatti e artificiali? Sarebbe la condizione opposta a quella del regno di Dio, che l’uomo può raggiungere solo attraversando il deserto, spogliandosi cioè di idoli e dipendenze. Dio è geloso della libertà dell’uomo. “Non vorrei essere proprio io a interferire”, pensa Silvio rivolto al crocifisso con la familiarità di un don Camillo che si confida sui dispetti di Peppone. Come in una partita a scacchi tenta la mossa più coraggiosa ipotizzando un’inversione di tendenza. Certo, non si tratta di disfarsi dell’impero economico, di regalarlo. Silvio non è San Francesco! Si tratta piuttosto di scomporlo in singole imprese da cedere a molteplici titolari o gestori. Del resto la vitalità dell’economia italiana, snella e creativa, non si basa proprio sulla piccola e media impresa anche nell’attuale contesto di fusioni e globalizzazione? Sembrerebbe che Silvio voglia autoridimensionarsi per libera scelta. Non è detto che, se si decidesse a farlo, cadrebbe in miseria. Dal passaggio di proprietà e di gestione ricaverebbe il patrimonio necessario per il benessere suo personale, dei figli, dei nipoti e dei nipoti dei nipoti. E potrebbe diventare politico-politico, oltre che continuare a fare l’imprenditore. Di nuovo è sera, poi mattina. Quarto giorno. Silvio è ormai convinto che il suo attuale potere politico-aziendale non significhi libertà personale. È schiavizzante su fronti diversi. È dipendenza da meccanismi incontrollabili, da consulenti non infallibili, da rischi ed esperimenti incerti; dalla necessità di demagogia e del culto dell’immagine. Dopo le tante esperienze negative non riesce a giurare neppure sulla fedeltà dei collaboratori più stretti. Ancor meno su quella dei funzionari governativi e ministeriali; meno che meno dei diplomatici, abituati per galateo a strisciare, ma sempre pronti a rialzarsi per far valere l’intera forza corporativa. Egli sa che le cerchie del potere pullulano di opportunisti, sempre ossequiosi verso i più forti, sempre propensi al tradimento quando il potere emigra. E poi per Silvio, convinto di avere il pragmatismo dell’imprenditore e la buona fede del democratico, è un paradosso doversi portare a tracolla l’ideologia. Un potere economico che diventa politico ha bisogno, prima o poi, di un forte e rigido sistema concettuale che gli garantisca consistenza e continuità. Nella sua stessa compagine governativa si era consolidata all’inizio una componente che si ispirava a una ideologia storica di destra, anche se finita male. Aleggiava lo spettro della cattiva sorte che pende sulla testa dei despoti. Silvio non ha la vocazione al dispotismo, tantomeno la voglia di finire in Piazza Loreto o in esilio tunisino. Nel frattempo c’è stata la pausa del pranzo, che fra Bernardino gli ha lasciato sul tavolino con un Chianti d’annata e un sorriso compiacente. Silvio si diverte a spiare dall’alto la ricreazione dei fraticelli sul piazzale davanti alla chiesa. Passeggiano in crocchi di sei ed otto; gli uni di fronte agli altri vanno e vengono in marcia e retromarcia senza girarsi, con le mani infilate nelle maniche del saio. Dal gesticolare si intuiscono i discorsi; parlano di Dio, ma anche delle cose terrene. Scherzano e ridono, indulgono al pettegolezzo bonario, sembrano sereni. Silvio pensa che questo rito dovrà ripetersi ogni giorno, mentre lui nella bolgia romana si affanna dietro il calendario degli incontri o si agita sui dispacci di agenzia e l’insonne maldicenza dei critici. Sa di illudersi quando crede che il popolo acclamante gli sia devoto. Ritiene di aver avuto una capacità e una fortuna ben al di sopra della media, ma non è detto che la generalità dei connazionali sia meno furba e ambiziosa. L’ammirazione è spesso invidia, l’invidia dell’irraggiungibile. E l’invidia con l’ammirazione, cioè senza sfogo immediato, si accumula, si stratifica. Finchè l’invidiato-ammirato non mostri un lato debole. D’un colpo potrà mostrarne anche diversi, e allora quegli adulatori si trasformeranno in partigiani e potranno sbranarlo fino a rosicchiarne le ossa. Non c’è dubbio che a questa spada di Damocle e alle molteplici schiavitù Silvio potrà sottrarsi solo con la politica pura. La politica dello sviluppo armonico, del pragmatismo razionale, della lungimiranza profetica, della cultura e della comunicazione matura, del libero consenso. Oltretutto il superpotere economico-mediatico-politico è miope: non vede il valore primario dello statista, che è l’incontro con la storia. Nella storia non c’è posto per chi vive di interessi svianti e alla giornata. La storia è fatta di visioni e testimonianze epocali. La conversione di Francesco d’Assisi e dell’Innominato è religiosa. La crisi di Silvio è invece quella dell’imprenditore che si confronta per la prima volta con un orizzonte più vasto, che paradossalmente è anche un fattore economico in più. Egli riflette su quale tipo di potere sia più conveniente, quale sappia abbinare meglio il regno del mondo e quello di Dio, terra e cielo. Una crisi esistenziale con i piedi per terra! In convento egli si è portato la Repubblica di Platone e dispone del Vangelo. Non ha il tempo di leggerli, preso com’è dal turbinio di pensieri ed emozioni. Ma i due libri restano l’unica biblioteca di riferimento. Non ha voluto arricchirla dell’Imitazione di Cristo, nel suo caso troppo mistica e radicale. Non crede di avere la stoffa da monaco. Concretizzando questa nuova visione potrebbe diventare un illuminato capo di stato, una guida nel presente e un modello nel futuro. Che gli avversari di bandiera non si accontenteranno subito neppure di una soluzione così netta del conflitto di interessi pare scontato. Potranno persino accusarlo di un’operazione studiata per vantaggi d’immagine. Silvio non pare preoccuparsene. Sa che la sua testimonianza sarebbe sincera e arriverebbe ai cittadini – e come sempre, di riflesso e a scoppio ritardato, anche ai dirigenti dei partiti di massa e ai populisti di turno che non vorranno mettersi fuori gioco. Così nell’elezione per acclamazione a presidente della Repubblica potrebbe contare persino sul loro sostegno. Di nuovo è sera, poi mattina. Quinto giorno. Dopo la prima colazione in cella Silvio si trasferisce nello studio di fra Bernardino per telefonare ai collaboratori di Roma e Milano. Non ha più mal di testa. Nel pomeriggio farà una scappata ad Arcore per parlare con i familiari all’oscuro di tutto; domani rientrerà a Palazzo Chigi. Su una cosa gli ordini sono perentori: i vari uffici stampa dovranno cominciare ad annunciare il discorso televisivo che fra tre giorni Silvio intende rivolgere alla nazione a reti unificate. C’è chi pensa a una grande messinscena mediatica come quella del contratto notarile con i cittadini prima delle elezioni. C’è chi si preoccupa che questa volta egli intenda fare tutto di testa sua senza interpellare neppure i consulenti più illuminati e disinteressati. C’è chi sospetta che voglia incontrare la storia al cospetto di Dio e del vero popolo italiano. E c’è anche chi non pensa più a nulla. Mario Tamponi