Mario Tamponi Zurück
Una strana vacanza Estate ‘85 A Berlino il massacrante ritmo di redazione non aveva consentito a me e ad Evalouise, mia compagna di vita, di programmare in tempo le vacanze. „Incontri“, che con oltre dieci anni di idealismo e impegno artigianale era già diventata in Germania una rivista importante, ci coinvolgeva e schiavizzava. Per l’edizione di luglio prima della pausa estiva avevo appena curato un’intervista col presidente della Repubblica Federale von Weizsäcker sulla „riunificazione tedesca“, una col segretario generale della CDU Geißler con la tesi allora profetica di un "Kohl sottovalutato“ e una con Pavarotti sulla musica "come droga“; avevo scritto un commento sulla fine del settennato presidenziale di Pertini e inserito il commiato del corrispondente del „Corriere della Sera“ Sormani, nostro collaboratore, che non aveva mai amato i tedeschi e che perciò lasciava Bonn „senza rimpianti“; avevo impaginato la periodica rubrica dell’ambasciatore Ferraris, un servizio di attualità economica del presidente dell'Olivetti Carlo De Benedetti, una recensione del libro fresco di stampa „La mafia imprenditrice“ di Pino Arlacchi. Fu quest’ultima a suggerirmi l’idea di un viaggio in Sicilia, il primo, ovviamente non per incontrare la mafia, ma per ritemprarci con un concentrato di sole nel totale anonimato. Nella nostra rubrica dei piccoli annunci mi soffermai sull'offerta di un „villino sulla costa di Polifemo” per 4-6 persone. Col proprietario, un medico di Acireale, concordai telefonicamente tempi e prezzo e senza esitare preparammo le valigie. Precedenti spiacevoli mi suggerirono di non parlare con nessuno sulla destinazione, neppure con gli stretti collaboratori di redazione. Mi sorprese quindi la telefonata di un noto giornalista siciliano, corrispondente da Berlino, che invece „sapeva“ già tutto e ci invitava insistentemente ad andare a trovare un suo carissimo amico a Belpasso ai piedi dell’Etna, che “sarebbe stato onorato di poterci ospitare” almeno per qualche giorno. Non gli chiesi la fonte dell’informazione nè la ragione di tanta premura. Partimmo il 24 luglio con un volo diretto per Roma per una sosta, come consuetudine, nella città eterna. Entrati nel nostro appartamentino del centro storico notai che premendo l’interruttore la luce del bagno s’era accesa flebilmente per spegnersi subito del tutto. Piazzai la scaletta pieghevole al centro del vano e in punta di piedi sull’ultimo gradino mi accinsi a svitare il globo di cristallo per la sostituzione della lampadina. Al primo giro il globo, stranamente strapieno d'acqua e pesantissimo, mi schizzò dalle mani e, travolgendomi, mi schiantò a terra con uno scoppio assordante e frantumi di vetro in tutte le direzioni. Mi rialzai sanguinante e ringraziai il cielo perchè, pensai, se l'interruttore fosse rimasto acceso, con l’acqua la scarica elettrica mi avrebbe fulminato. Ma restava aperto l’enigma. Ciò che l’anziana Ines, la vigile custode della strada, mi aveva raccontato di signori sospetti da lei ripetutamente sorpresi nel pianerottolo di casa l’avevo archiviato come una trovata di fantasia megalomane. L’ipotesi di un precedente allagamento nel piano di sopra, anche se improbabile, mi sembrò utile per sopire l’apprensione. A nessuno avevo confidato neppure l'intenzione della tappa romana. E invece la sera a Roma mi raggiunse da Francoforte la telefonata di un amico siciliano, un politico, che “aveva saputo“ e mi invitava dai suoi in provincia di Enna. All’alba del giorno dopo mi parve strano l'insistente gracchiare del telefono che non riuscivo a bloccare neppure staccando la cornetta. Chiamai la SIP per chiedere una verifica della linea. Quasi seccata l’operatrice chiuse il caso assicurandomi che “in Italia nessuno controlla nessuno”. Del volo verso Catania ricordo l’apparizione solare della costa nord-orientale della Sicilia e l’emozione della discesa del DC 9 attorno ai superbi declivi dell’Etna; dall’alto il vulcano mi si presentava organicamente integrato nell'isola come se ne fosse l’ombelico. All’aeroporto ci aspettava il medico che in macchina ci portò direttamente alla nostra casetta di vacanza in un villaggio per soli siciliani, recintato e con cancello in ferro battuto chiuso a chiave. I villini avevano tonalità pastello; sullo sfondo gli scogli color lava su uno specchio di cristallo blu intenso. Dentro il villaggio non c'era una piazzetta o un bar; gli acquisti erano possibili a Scillichenti, un paesino raggiungibile a piedi su un viottolo ornato di more nere come la pece. La nostra dimora non aveva mobili, nè telefono o televisione: uno stanzone con cucina e una camera da letto con sgabuzzino. Vi si accedeva attraversando il giardino con sedie rustiche attorno ad un tavolo di granito tra fichi, aranci, limoni e viti nodose abbarbicate sui muri di cinta come edera. Quando il medico si congedò per rientrare ad Acireale ci rendemmo conto di precipitare in un mondo di silenzio e diffidenza. Avremmo voluto presentarci e familiarizzare con i vicini, ma adulti e bambini scappavano al nostro avvicinarci e sbattendo la porta di casa si nascondevano dietro le persiane. Capimmo quanto invadente e irriguardoso sarebbe stato il nostro insistere. Quando la sera tornammo da Scillichenti con le prime provviste alimentari ci sorpresero tre grossi pesci con la testa mozza ancora sanguinante accuratamente allineati sul muricciolo accanto al nostro cancello. Cercai di spiegare ad Evalouise l‘inequivocabile messaggio di sfida. Raramente mi lascio intimidire dalle provocazioni, ma questa era indefinita e gratuita in un ambiente impenetrabile. Ripreso fiato decidemmo di rifare le valigie e di dileguarci immediatamente. Ma da Scillichenti l’ultimo pullman era già partito, non c’era un taxi e il telefono dell'unica cabina era fuori uso. Ci rassegnammo a passarvi la notte, che già cominciava ad avvolgere ogni cosa. Dopo una cena frugale in giardino, noncuranti della luna piena e della serenata dei grilli, andammo a dormire a luci spente. Quando le tenebre si fecero fitte cominciarono a giungerci rumori tamburellanti e voci insidiose come „Mariooo..oo.o... Marioooo…ooo…“, ripetute con una cadenza stiracchiata, lugubre come l’eco della lontananza. Nel letto cercai Evalouise senza fiatare; il suo silenzio lucido e rappreso mi confermò che la mia percezione non era allucinazione. Ci giunse poi dalla cucina il ritmico frastuono della porta metallica d'ingresso come se qualcuno si ostinasse a forzarla freneticamente. Mi sembrava suicida la passività da panico, l'attesa inerme del peggio. Per prevenire l’irrompere dei fantasmi, nell'oscurità interrotta da sprazzi di luna mi trascinai verso la cucina con passi felpati e l'istintivo rammarico d'essere disarmato. Avanzavo come un mollusco senza corazza, una lumaca viscida che qualsiasi spirito bizzarro avrebbe potuto schiacciare senza rimorso. Tirai un respiro di sollievo quando mi rassicurai che la porta era chiusa e approvai l’ipotesi che fosse la brezza serale a farla vibrare. Rifiutandomi di considerare altri indizi, tranquillizzai la mia compagna sempre più piccola su un letto diventato gigante; poco dopo sparimmo esausti nell’incoscienza del sonno profondo. Finchè l’alba non filtrò radiosa attraverso i battenti sconnessi. La colazione in giardino, l’inebriante profumo degli agrumi e il dialogo trasparente del mare con la scogliera scossero il proposito di partenza immediata; poi arrivò il medico con due cesti ricolmi di frutta. Ci venne meno il coraggio di contrariare la sua cordialità col racconto dei pesci e degli incubi notturni, e tacita si rinsaldò l'intesa. Nell'isolamento c’era pur sempre la prospettiva consolatoria di interminabili spremute di limoni, di scorpacciate di fichi direttamente dall'albero, di grigliate di pesce secondo l’insistente suggerimento del medico prima di andarsene. Nel primo pomeriggio al mercato di Acireale acquistammo pesci assortiti sufficienti per diverse serate, evitando ogni somiglianza con quelli decapitati con cui ci era stato dato il benvenuto. Alla prima grigliata ci preparammo con la dovuta ritualità. La griglia elettrica che staccai dalla parete bianca della cucina era in evidenza come un quadro d'autore, e sulla rete d'acciaio allineai spigole, orate, triglie e calamari alternando forme e colori nello stile del Guttuso. Attaccai la spina ma, quando con la forchetta mi accinsi a girare il primo pesce fumante, una scossa violenta mi aggredì e penetrò nelle profondità dell’intero midollo spinale. Con la velocità di un lampo strappai il filo dalla presa; raccolsi ogni forza residua per buttarmi sul letto contro le palpitazioni impazzite. Per fortuna non avevo sfiorato con la posata il metallo della griglia. Si meravigliò il medico quando il giorno dopo gli riferimmo l’accaduto senza drammatizzare, anzi quasi fingendo di riderci sù. Le successive supposizioni di Evalouise alla Sherlock Holmes le depistai con battute spiritose secondo la tesi che la mafia esiste soprattutto nella fantasia di chi la teme. Non rinunciammo al pullman di linea per escursioni a Taormina e a Messina per la traversata in traghetto dello stretto tra Scilla e Cariddi. Mi piaceva osservare la gente; volevo coglierne l’anima, le poche certezze e le più numerose paure nei gesti ordinari, nelle caute conversazioni di piazza, nelle combriccole maschili al bar o nelle adunate femminili davanti alle loro porte di casa. Per immergermi nel lugubre mi soffermavo a lungo davanti agli innumerevoli necrologi e locandine sovrastate dalla croce o dal volto sanguinante del Cristo che tappezzavano muri e portoni: sembrava che ad ogni morte partecipassero tutti fino all’ultimo dei parenti e che i sopravvissuti tenessero a conservare nei mesi e negli anni ogni residuo di lutto. Il giorno della partenza non c’era nessuno da cui avremmo dovuto congedarci, tranne il gatto sornione che spesso era venuto a trovarci per avanzi di pesce e qualche carezza; il medico ci riempì di ingombranti doni-ricordo. Da Catania attraversammo in pullman l‘interno suggestivo dell’isola fino al porto di Palermo. Quando alle otto di sera la nave si staccò dal molo brulicante di gente, a stento trattenni la commozione contemplando dal ponte la città illuminata che si ritraeva gelosa nei propri misteri. Quando al risveglio ci scoprimmo nella vivacità urlata del porto di Napoli la Sicilia era ormai un ricordo surreale. Ripassando per Roma senza averlo annunciato a nessuno, mi sorprese ancora una volta la telefonata a casa di una collaboratrice di redazione, “anche lei in vacanza”, che avrebbe voluto offrirmi un caffè in Piazza Navona per parlare di progetti passati e futuri. Avrei preferito urlare „basta!“, ma accettai per non essere scortese. Eppure quella ragazza in minigonna dalla voce da sirena impenitente aveva rivelato più d'una volta la sua parte attiva di intrigante e doppiogiochista al servizio di chissà chi, e continuava a svolgerla confidando nella mia presunta ingenuità. Da allora, con tanti pretesti che io stesso finivo per trovare plausibili, ho sempre evitato di rimetter piede in Sicilia: anche quando con la mia agenzia berlinese collaboravo proficuamente con istituzioni regionali per azioni di promozione agroalimentare e turistica; anche quando da associazioni giornalistiche e culturali vi ero invitato per congressi e dibattiti: a Torino e a Berlino godevo della vicinanza di siciliani colti e geniali conosciuti negli anni di studio. Ma spero di poterci ritornare un giorno, magari con mio figlio per mostrargli la terra dei limoni, dove proprio in quell’estate lontana, in una notte di sereno dopo la tempesta, è stato concepito da madre tedesca e padre sardo. Entrando ormai nella sera della vita mi appare doveroso un gesto di riconciliazione con quella grande isola, protesa come la mia nel Mediterraneo, da cui spesso sono stato attratto senza l'opportunità di riceverne confidenza. Mario Tamponi